Wizard’s Lair, non lo nego, mi ha fatto sognare. Wizard’s Lair per un attimo mi ha fatto sperare, in un mondo (dei videogiochi) migliore. Ma soprattutto, nonostante la sua tirchieria nell’elargire munizioni, Wizard’s Lair mi ha fatto sparare. E tanto. Il titolo nacque da una sparuta software house (la Bubble Bus) capace di alternare, nel corso della sua breve e triste permanenza su questo globo, prodotti decisamente validi ad altri piuttosto anonimi e dozzinali (come Hustler, indecoroso tentativo di simulazione di biliardo).
Grande protagonista delle avventure di questa minuscola compagnia di pornoattori ormai caduti nell’oblio fu senz’altro Steve Crow, il solito timidone dai lineamenti e dalla pettinatura orgogliosamente e fastidiosamente anglosassoni, nonché squattrinato e solingo studentello capace di stringere amicizia a malapena con i suoi brufoli.
Murato vivo nel suo scantinato d’ordinanza, questo supereroe d’altri tempi fu in grado di sfornare in rapida successione, alla verde età di diciannove anni, i due giochi probabilmente di maggior successo di critica e pubblico nella storia della Bubble Bus, Wizard’s Lair e Starquake.
Ho sempre ammirato lo Spectrum, la violenta contrapposizione dei suoi pochi e accesissimi colori, la sua grafica involontariamente psichedelica incompresa da masse viziate dalla strafottenza cromatica del C64. Ma in particolare ho venerato la magnifica produzione sinclairiana della Ultimate (che in seguito si trasformerà di soppiatto nella Rare). Wizard’s Lair, è triste dirlo, non è altro che un furioso clonazzo ampliato e precipitevolissimevolmente invecchiato dei leggendari Atic Atac e Sabre Wulf (dal quale sono stati presi di peso alcuni elementi della vegetazione). Frenetici giochi d’esplorazione con sparatorie che un tempo venivano lanciati, quasi distrattamente, nel capiente contenitore arcade adventure, mentre oggi chissà.
Ma la Bubble Bus non era la Ultimate, manco lontanamente, non ne aveva lo stile, l’ampiezza di vedute, il carisma. La software house di Tonbridge (paesello del Kent, nel Sud-Est, di trentamila anime) non poteva sfoggiare nemmeno la qualità spesso assoluta di una Thalamus, la sensuale raffinatezza spaziale di una Hewson, per non parlare della sublime visionarietà avanguardistica di una Denton Design. Eccezion fatta per il capolavoro Starquake (superbo platform-maze game, dotato di caratteristiche innovative, partorito dallo stesso Stephen in combutta con Dave Collins qualche mese dopo), anche i suoi titoli più riusciti erano generalmente manieristiche e furbe riproduzioni delle genialate altrui più gettonate.
Allora perché Wizard’s Lair all’epoca surriscaldava tanto i miei implumi organi sessuali, apparendomi così speciale? Andarsene in giro con questo tizio indistinguibile visto dall’alto, tale Pothole Pete, lo appresi in seguito. Andarsene a zonzo, dicevo, in stanze apparentemente tranquille, almeno inizialmente, ma d’un colpo rese incasinatissime da orde di isterici e spettrali sprite. Il fascino di questa magione sperduta e immensa, con i suoi interni appena accennati, i troni abbandonati, i forzieri pronti a spalancarsi per inghiottire, il fiume inquietante che attraversava lo scenario vietando l’accesso alle zone più ambite. Gli ori da trasformare in robe più utili alla causa, le munizioni che si esaurivano sempre sul più bello, drammaticamente (e forse questo aspetto era determinante nel rendere il gioco tanto avvincente). E poi le zone segrete, gli idoli pagani da ricostruire, certosinamente. Le porte che dovevi aspettare.
Ma il momento centrale, il più atteso di tutti giungeva alla fine, quando un rude e assordante jingle dal sapore antico stuprava l’atmosfera sapientemente creata dal silenzio precedente, introducendo una schermata nera. Su di essa veniva semplicemente scolpita la percentuale di completamento dell’avventura (evento all’epoca inusuale) e qualche altro dato. Statistiche che risultavano regolarmente spiazzanti, beffarde, demoralizzanti per me e probabilmente anche per le orde di masochisti di quel periodo. Ma per una qualche strana ragione mi ostinavo lo stesso a caricare e a giocare quel difficoltoso e urticante videogioco, senza peraltro mai riuscire ad avanzare di un solo millimetro nell’esplorazione, o anche soltanto nella disperata ricostruzione di quel dannato leone d’oro del cazzo. (Ars Ludica’s)
Prodotto e sviluppato da Bubble Bus Software | Piattaforme ZX Spectrum, C64, MSX, Amstrad CPC. Rilasciato nel maggio 1985.
2 Marzo 2010 il 14:45
Avevo un amico che possedeva lo Spectrum: nei primi tempi c’erano baruffe piuttosto accese se fosse meglio il C64 o lo ZX. Finirono immediatamente quando mostrai After Burner e Out Run sul televisore collegato al C64…
Cordialità
Attila
.-= Attila´s last blog ..Sono Confuso =-.
2 Marzo 2010 il 14:49
A vantaggio dello Spectrum, intendi, immagino :asd: , visto che quelle due conversioni non erano esattamente dei capolavori, specie la versione europea di Afterburner (17% su Zzap!64, per dire).
2 Marzo 2010 il 16:45
La questione non era la conversione (in effetti dal caricamento lungo e dalla grafica raffazzonata), ma la possibilità di giocare i classici coin op sul proprio tv… dai, :incaz: che sennò poi :mastella: non riesce a tuffarsi tranquillo nella piscina a forma di cozza!
Rinnovo le cordialità
Attila
.-= Attila´s last blog ..Sono Confuso =-.
2 Marzo 2010 il 18:04
Eh, ma non sempre venivano meglio sul Commodore… Quella di Enduro Racer per esempio su Spectrum era spettacolare (considerando i limiti della macchina) mentre su C64 faceva cacare incudini scolpite nel torrone (e ciononostante era molto migliore di quella di Super Hang On per la stessa macchina :asd3: ).
3 Marzo 2010 il 9:34
Confesso ? Si, confesso.
Non so NULLA di videogiochi ed i tuoi post confondono ancora di più il mio già rintronato cervellino.
3 Marzo 2010 il 9:36
Sì, rammento che l’avevi già confessato a Karat da qualche parte… (dai ché ho quasi finito di riciclare i post da Ars :asd: ).
19 Marzo 2010 il 10:35
Sul discorso conversioni,molto spesso lo Spectrum la spuntava agevolmente quando si trattava di giochi in similtreddi’ ( il gia citato Enduro Racer,ma anche Space Harrier,Chase HQ e WEC Le Mans per fare altri esempi ): palette di colori a parte sono conversioni fluide e giocabili.
Naturalmente poi ci sono le eccezioni,come i miracoli compiuti da Chris Butler con Power Drift e Thunder Blade…
Tornando al gioco della Bubble Bus,e’ esageratamente difficile,considerati anche gli standard di allora: bisogna reagire alla velocita’ della luce,e molto spesso si evita un nemico per finire nelle grinfie del maledetto sprite incappucciato e armato di ascia capace di abbattere il protagonista in un solo colpo. :sisi:
Starquake manco scherza in quanto a difficolta’,ma era molto piu’ generoso verso il giocatore… :banana:
19 Marzo 2010 il 11:47
Anch’io pensavo fosse “troppo difficile anche considerando”, poi ho giocato a Jet Set Willy II… :asd: :asd: :asd: